Sua maestà la castagna7 min read

L’Appennino modenese è un luogo magico, fatto di splendidi paesaggi e di tante storie da raccontare. Con l’arrivo dell’autunno una più delle altre si fa strada nella memoria degli uomini. È la storia di una signora, buona e nobile come poche sanno essere, ma che ci degna della sua presenza solo per pochi mesi l’anno. Sto parlando proprio di lei, della castagna, e del suo monumentale albero, il castagno. Articolo a cura di Sara Ferrari 

 

Castagna
Foto Ilaria Casagrandi

 

Il castagno, tuttavia non è di queste parti, infatti, con ogni probabilità fu portato in Italia dal Vicino Oriente dai Romani, più precisamente da una città della Tessaglia che i Latini chiamavano Castanum e che forse ha dato il nome all’albero stesso (Castanea sativa).

I nostri castagneti quindi non sono autoctoni, ma rappresentano il risultato di una grande modificazione del paesaggio agrario iniziata in epoca romana e continuata nel Medioevo. Fu proprio in quest’epoca di re e castelli che gli uomini capirono la miniera d’oro che cresceva nei loro boschi e iniziarono a coltivarlo per produrre frutti da consumare freschi, ma soprattutto secchi.

Per molti anni, ma che dico, per secoli, il castagno è stato una delle risorse alimentari ed economiche principali sia in collina che in montagna, non a caso ha preso il nome di “albero del pane”. Del castagno, come del maiale, non si butta via niente.

 

Castagno secolare di Monteombraro - Castagna
Castagno secolare di Monteombraro – Foto Sara Ferrari

 

Dopo l’inverno i castagni venivano potati e a inizio primavera si innestavano per ricavare qualità più pregiate, come le pastonesi e i marroni. A settembre si procedeva con la “sterpatura” (la rimozione dal suolo delle sterpi).

La raccolta delle castagne (castagnadùra) era tra ottobre e novembre e poteva durare diverse settimane e impiegare ingenti quantità di manodopera. Gli addetti alla raccolta svolgevano il loro lavoro usando cesti, grembiuli e sacchi.

Poteva capitare che la forza lavoro non fosse sufficiente e così si richiedeva l’aiuto delle raccoglitrici, che venivano assunte durante la fiera delle raccoglitrici, che si teneva il 29 settembre (S. Michele). I lavoratori di solito erano pagati in natura e a coloro che provenivano da luoghi lontani era offerto vitto e alloggio.

Le castagne che cadevano sulla via pubblica potevano essere raccolte da chiunque, mentre quelle che finivano nei fossi di confine spettavano al primo confinante arrivato (questa è guerra).
Terminata la raccolta il castagneto veniva pulito con scope di sanguinella, le foglie venivano portate a casa per alimentare il fuoco e le castagne erano caricate su carri trainati da buoi e portate nei metati per l’essiccazione.

 

Castagna
Foto Ilaria Casagrandi

 

I metati erano delle costruzioni in muratura, con una stanza a pian terreno dove veniva acceso il fuoco (alimentato da ceppaie e dalla buccia delle castagne essiccate l’anno precedente), e un vano al piano superiore, raggiungibile con una finestra esterna, dove venivano poste le castagne, su un “pavimento” fatto di assi ravvicinate in modo che potesse passare il calore, ma non potessero cadere i preziosi frutti.

Il fuoco ardeva per almeno 24 giorni e doveva essere sorvegliato giorno e notte per evitare incendi. Le castagne venivano girate e rigirate e una volta essiccate a puntino alcune assi venivano spostate (non credo ci sia bisogno di dire che il fuoco veniva spento) e i frutti cadevano al piano inferiore.

Si procedeva quindi con la trebbiatura usando la pila, un grande mortaio in legno a forma di calice, dove le castagne venivano liberate dalla buccia con una stanga che aveva all’apice delle punte di ferro.
Con la vassora si separavano le castagne dai frammenti di buccia e manualmente si eliminavano le castagne bacate, non sbucciate o non essiccate a dovere, usate per sfamare i maiali.

Dopo tutta questa lavorazione, il prodotto veniva portato nei mulini ad acqua per essere macinato, pagando il mugnaio con una percentuale della farina.
Per evitare il contatto con l’aria la farina veniva riposta in cassoni in legno e pressata in modo tale che per utilizzarla doveva essere frantumata con un coltello e passata al setaccio per i grumi.

 

La pila - Castagna
La pila – Foto Sara Ferrari

È chiaro che le popolazioni montane oggi non vivono di sole castagne e di certo non si basano su tecniche di coltura e di lavorazione tradizionale. Le cose cambiano, ma il castagno e i suoi frutti sono rimasti nella nostra memoria e nella nostra vita quotidiana.

Tuttavia, come per tutto, anche questo albero ha avuto i suoi periodi bui: con la fine dell’800 ebbe inizio un lento declino che culminò nel 1950, la causa principale fu l’esodo delle genti della montagna verso la pianura e la città e di conseguenza il crollo del mercato delle castagne, dovuto anche al cambiamento delle abitudini alimentari.
Ne consegue che molte tradizioni del vivere comune sono andate perdute e ricostruirle di certo non è una cosa semplice. Ma non tutto è andato perso: l’albero del pane ha pian piano rappresentato il simbolo di una cultura popolare e basta guardarci intorno per scorgere alcune briciole di antiche pratiche rimaste nella nostra tradizione e nel nostro folclore.

 

Castagno di San Giacomo di Zocca - Castagna
Castagno di San Giacomo di Zocca – Foto Sara Ferrari

 

Insomma, quanto dovevano essere centrali nella vita degli uomini le castagne se ancora oggi esistono una serie di modi di dire che le vedono come protagonista:

  • Essere preso in castagna – esser colto in fallo.
  • Aver preso una castagna – aver preso un pugno.
  • Levare le castagne dal fuoco – risolvere un problema.
  • Avere la castagna – pronunciare male le parole (come se si avesse una castagna in bocca).

Inoltre non possiamo nemmeno trascurare il fatto che questi frutti sono associati alla sfera della sessualità: la castagna indica l’organo sessuale femminile, mentre il marrone designa i testicoli. E da qui un’altra serie di modi di dire che ci dimostrano per l’ennesima volta il grande valore culturale che questi frutti avevano:

  • È uno coi marroni – uno che sa il fatto suo.
  • È smarronato – uno di pessimo umore.

Ma come possiamo dimenticare il vero ruolo che hanno avuto le castagne: sfamare.
In tempi di magra per molti popoli di montagna la farina di castagne è stato il principale alimento, se non il solo. E forse non è così sbagliato pensare che almeno alcune delle ricette della nostra tradizione sono nate proprio da questa estrema fame e da questi periodi di carestia.

 

Castagneto di Erbolano, Missano - Castagna
Castagneto di Erbolano, Missano – Foto Ilaria Casagrandi

 

(PREMESSA: OGNI REZDORA HA LA SUA RICETTA. Quelle riportate qui sotto provengono dalla saggia voce di mia nonna e quindi se notate qualcosa di diverso non facciamo polemiche, a casa mia si fa così).

POLENTA DI CASTAGNE

Farina di castagne
Acqua
Un pizzico di sale
Fare bollire l’acqua, versare a pioggia la farina mescolando rapidamente per non formare grumi. Cuocere mescolando senza sosta per circa mezz’ora.
Si può condire con panna, ricotta, un uovo fritto o con la cunza dei borlenghi. Una buona porzione di parmiggiano reggiano (che non guasta mai) e buon appetito.

MISTOCCHE

Farina di castagne
acqua
Impastare gli ingredienti su un tagliere, poi suddividerlo in pagnotte piccole e allungate (le mistocche appunto) e cuocere in un forno ben caldo.

Essendo così dure si conservavano per lunghi periodi e venivano date ai bambini durante la dentizione per alleviare il fastidio alle gengive.

FRITTELE

Farina di castagne
Un pizzico di sale
Acqua q.b.
Strutto per friggere

In una terrina stemperare la farina con l’acqua e il sale fino a ottenere un impasto abbastanza liquido da poter usare un cucchiaio. Mettere l’impasto a cucchiaiate nello strutto bollente, girarle più volte e toglierle dalla padella quando avranno assunto un colore bruno rossiccio.

 

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